OMELIA DI S.E.R. MONS. FILIPPO SANTORO
ARCIVESCOVO METROPOLITA DI TARANTO
Martina Franca, 27 dicembre 2019
«Quello che era da principio – abbiamo ascoltato nella seconda lettura -, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita […] noi lo annunciamo anche a voi» (1Gv 1, 1-3).
Nel riverbero dello splendore del santo Natale, mistero dell’Incarnazione del Verbo che assume la carne degli uomini, stiamo vivendo la solenne liturgia della consacrazione episcopale del nostro don Angelo, facendo visibilmente esperienza di tutta la compagine ecclesiale. Celebriamo insieme l’edificazione del Regno di Dio, proprio noi che siamo pietre vive poggiate sul fondamento degli Apostoli, in Cristo pietra viva (1Pt 2, 4).
Egli è qui presente. Nella successione ininterrotta degli Apostoli siamo legati in maniera mirabile alla storia di quei Dodici che vengono convocati da Gesù dopo quella preghiera notturna (Lc 6, 12-13), dove nell’intimità del dialogo del Padre con il Figlio, sono affiorati in quel colloquio intimo, imperscrutabile e misterioso i nomi dei capostipiti del nuovo Israele. Siamo intimamente connessi a quella sequela per le strade della Galilea, della Giudea, della Samaria e delle terre pagane, calcate dal passo di quel piccolo gregge. Siamo legati al cenacolo, dove nel vespro di quel primo giovedì santo nostro Signore si diede loro, e per loro a noi, nel pane e nel vino (Mt 26, 26-29).
Eccoci uniti, sempre per il mistero della misericordia, alla sera di quello stesso primo giorno, nel crepuscolo di Pasqua (Gv 20, 19), a quello stesso luogo con le porte sprangate ma superate dal Risorto che augura a loro, e quindi a noi, la pace e che non solo continua ad amare gli Apostoli ma dona loro il potere di rimettere i peccati (Gv 20, 23).
Eccoci dunque, a contemplare la stanza del piano di sopra con la Madre di Gesù circondata dagli undici, sconvolti dal vento impetuoso(At 2, 2), dalle lingue di fuoco, dal dono delle profezie e delle lingue. Siamo contemporanei e grati agli undici che ricompongono il numero di dodici con l’aggregazione di Mattia (At 1, 26), per seminare, la maggior parte di loro con il sangue, la buona notizia fino ai confini estremi della terra (Mc 16, 15).
Fratelli e sorelle, mentre partecipiamo all’opera di salvezza storicamente cominciata da Gesù Cristo, stiamo compiendo sacramentalmente il grande mistero della giovinezza e della bellezza della Chiesa.
Cristo assiso alla destra del Padre, non cessa di esserci accanto per mezzo dei Sacramenti della sua Sposa, potendo raggiungere così tutti gli uomini del mondo per mezzo della sua resurrezione, la vittoria definitiva sul peccato e sulla morte.
Infatti: «nella persona dei vescovi, assistiti dai sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo. Egli non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici in primo luogo, per mezzo dell’eccelso loro ministero, predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno (cfr. 1 Cor 4, 15) integra nuove membra al suo corpo con la rigenerazione soprannaturale; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine. Questi pastori, scelti a pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4, 1). Ad essi è stata affidata la testimonianza al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm 15, 16; At 20, 24) e il glorioso ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2 Cor 3, 8-9)» (LG 21).
Siamo avvolti dal sacramento di Cristo buon Pastore che non abbandona le sue pecore (Gv 10, 1) e che oggi rende riconoscibile la sua voce attraverso quella di don Angelo chiamato ancora di più oggi a donare la vita per il gregge (Gv 10, 11), a raccogliere e mai a disperdere, a custodire e a difendere, ad ammonire e ad insegnare.
Don Angelo oggi è chiamato ad essere pastore come anche porta dell’ovile(Gv 10, 7).
Ad imitazione del Maestro egli deve annunciare e far entrare i fedeli nel suo ministero di salvezza, come padre premuroso egli si sentirà responsabile della crescita della Chiesa, ad essa indicherà Cristo come unica via, somma verità, piena vita (Gv 14, 6), ed esortando i fedeli a praticare gli insegnamenti del Signore qui su questa terra si prodigherà perché nei suoi figli fiammeggi la speranza della vita eterna, del cielo, della nostra casa, la casa del Padre. Il vescovo è garante, verificatore e cultore dei carismi della Chiesa, circondato in primis dai presbiteri e poi dai diaconi e da tutti gli altri membri del Popolo santo deve essere per loro un padre esemplare, riflesso gioioso del Cristo mite ed umile di cuore (Mt 11, 29), capace di donare ristoro a coloro che ricorrono a Lui.
Come ci ricorda il Rito che stiamo celebrando don Angelo «annunzierà la Parola con insistenza, in ogni occasione opportuna e non opportuna; ammonirà, rimprovererà, esorterà con ogni magnanimità e dottrina. E infine, facendo ricorso alla preghiera e al sacrificio, non si stancherà di impetrare dalla ricchezza della santità di Cristo abbondanza di grazia sul popolo affidato alle sue cure».
Capite bene, fratelli e sorelle, che tutto ciò è superiore alle forze degli uomini. È impossibile agli uomini, ma non a Dio (Mc 10, 27)! Per questo nel cuore della preghiera di consacrazione invocheremo sull’eletto lo Spirito Santo, Spiritus Principalis:
Et nunc effunde super hunc Electum eam virtutem, quae a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio Tuo Iesu Christo, quem Ipse donavit sanctis Apostolis, qui constituerunt Ecclesiam per singula loca, ut sanctuarium tuum, in gloriam et laudem indeficientem nominis tui.
Effondi ora sopra questo Eletto la potenza che viene da te, o Padre, il tuo Spirito che regge e guida: tu lo hai dato al tuo diletto Figlio Gesù Cristo ed egli lo ha trasmesso ai santi Apostoli che nelle diverse parti della terra hanno fondato la Chiesa come tuo santuario a gloria e lode perenne del tuo nome.
«Per compiere cosi grandi uffici, – ci dice il concilio Vaticano II – gli apostoli sono stati arricchiti da Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo disceso su loro (cfr. At 1, 8; 2, 4; Gv 20, 22-23), ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4, 14; 2 Tm 1, 6-7), dono che è stato trasmesso fino a noi nella consacrazione Episcopale.
Il santo Concilio insegna quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero. La consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e dall’uso della Chiesa sia d’Oriente che d’Occidente, consta chiaramente che dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il sacro carattere in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell’ordine nuovi eletti nel corpo episcopale». (LG 21)
Dobbiamo pregare intensamente il Datore dei doni, il Padre dei poveri, il Consolatore, lo Spiritus principalis perché allarghi il cuore dell’eletto. Più volte ascolteremo le esortazioni liturgiche riferirsi alla magnanimità, alla grandezza di cuore del vescovo per guidare i presbiteri e i diaconi a lui affidati, per essere attento ai poveri e ai bisognosi, buon pastore che ha cura delle pecore smarrite, ferite e che si mette gli agnellini sul petto (Is 40, 11), uomo di preghiera per il bene del Popolo santo, uomo irreprensibile per costumi e dottrina. Lo Spiritus principalis soccorrerà ogni debolezza per il bene degli uomini e per la loro salvezza. Lo Spirito renda don Angelo forte nell’essere vicino ai più poveri tra i poveri. Lo Spiritus principalis lo renda coraggioso e audace nel proseguire la formazione delle coscienze nel cammino delle Chiese di Calabria, di Sicilia e della Capitanata per il superamento di ogni forma di illegalità che mira a deturpare la dignità del nostro popolo.
E per questo sarà versato in abbondanza sul capo dell’eletto il santo Crisma, l’olio dell’esultanza, che scaturisce dal Padre ed è donato a Cristo, agli Apostoli e ai Vescovi. L’effusione dello Spirito è grande ed abbondante perché grande ed immenso è il compito, il ministero del vescovo. Esattamente perché noi, come gli Apostoli, siamo così fragili. E questo, prima di essere un ministero di giurisdizione è un caritatis officium come dice sant’Agostino, un servizio di amore.
Nell’amore di Dio come si è rivelato nel Santo Natale, c’è come dice il Papa qualcosa di “trasbordante”, di straripante e per questo nel messaggio di Natale ai miei fedeli della Diocesi di Taranto ho detto che «il Natale è l’esagerazione di Dio Padre che pone l’unigenito sulla paglia, come anni dopo vedremo l’amore trasbordante di Dio pendere dalla croce fino a far fiorire la croce in albero della vita». Trasbordante è l’amore di Dio, il dono dello Spirito nell’ordinazione episcopale per rendere il tuo cuore, don Angelo, traboccante nel servizio dell’unità e della carità.
Caro don Angelo, mi rivolgo ora te perché possiamo godere innanzitutto insieme della parola or ora spezzata. Stiamo celebrando la festa di Giovanni Evangelista, il discepolo che Gesù amava, l’aquila di Dio. Secondo le credenze antiche egli come aquila, con il suo vangelo, ha fissato con lo sguardo il sole senza rimanervi accecato, ha saputo scrutare gli abissi dalle altezze vertiginose e ha rinnovato la sua giovinezza essendo l’apostolo più longevo.
La prima indicazione è mettersi con il capo sul cuore di Gesù, mettersi in ascolto di quel cuore che ha tanto amato il mondo. Un cuore inquieto che veglia sempre, che continuamente ripete a sé stesso «e ho altre pecore ancora che non sono di questo ovile, anche quelle devo condurre» (Gv 10, 16) e ancora «come vorrei che fosse acceso il fuoco che ho portato sulla terra» (Lc 12, 49).Un cuore ansioso di ricevere il battesimo (Lc 12, 50) della passione e morte per effondere misericordia ad ogni creatura, un cuore pronto a squarciarsi per offrire sangue ed acqua (Gv 19, 34), un cuore battesimale ed eucaristico che chiederà al tuo cuore di somigliargli ogni giorno. Un cuore misericordioso che aspetta il passo anche lento dei fratelli che vogliono incontrare Cristo. Un passo che hai imparato a riconoscere e rispettare attraverso i tuoi studi e l’insegnamento della teologia morale, indicando sì l’ardua meta ma insegnando anche la meravigliosa pazienza di Dio. «Gesù ama accostarsi ai suoi fratelli per mezzo nostro – sono le parole di Papa Francesco ai vescovi – per mezzo delle nostre mani aperte che accarezzano e consolano; delle nostre parole, pronunciate per ungere il mondo di Vangelo e non di noi stessi; del nostro cuore, quando si carica delle angosce e delle gioie dei fratelli. Pur nella nostra povertà, sta a noi che nessuno avverta Dio come lontano, che nessuno prenda Dio a pretesto per alzare muri, abbattere ponti e seminare odio.
È brutto anche quando un vescovo abbatte dei ponti, semina odio o sfiducia, fa il contro-vescovo. Abbiamo da annunciare con la vita una misura di vita diversa da quella del mondo: la misura di un amore senza misura, che non guarda al proprio utile e ai propri tornaconti, ma all’orizzonte sconfinato della misericordia di Dio».
Incontriamo Giovanni sotto la croce. Sai bene don Angelo che non c’è Cristo senza croce, non c’è amore senza croce, non c’è ministero senza croce.
Giovane e imprudente, Giovanni è lì, sotto la croce, testimone della morte di Gesù, uditore delle ultime sue parole e del testamento del Signore, ricevente della sua eredità. Accoglie come un fiume in piena l’amore di Cristo tanto che è egli stesso a dire che tutti i libri della terra non potranno mai contenere le cose di Gesù (Gv 21, 25).
È l’Apostolo che prende fra le cose più care la Madre di tutti noi. Mamma celeste che è la stella del tuo sacerdozio, che è la tessitrice silenziosa e operosa della tua vocazione, che ti ha tenuto le mani sulla testa e che da quella grotta di Lourdes della tua parrocchia di Pulsano ti ha insegnato ad innamorarti di Gesù e ad essergli fedele. Ripeterai a tutti, come Giovanni, che Gesù l’ha designata come nostra mamma, perché la tenerezza di Dio, della quale tu sarai annunciatore passa attraverso lo sguardo celeste di Maria, che tu preghi fin da quando eri bambino.
E la terza indicazione. Nel Vangelo di oggi Giovanni corre al sepolcro. L’amore per il Maestro lo spinge a correre, ad andare, ad attestare e a vedere, per testimoniare che Dio mantiene le promesse. Non promesse astratte, ma Parola fatta carne e gloriosamente viva per sempre. Giovanni vede ma non entra perché aspetta Pietro. Tu, don Angelo, da oggi farai parte del Collegio apostolico il cui capo è Pietro, il Papa. Oggi Papa Francesco ti chiama e noi vescovi per suo mandato ti consacriamo nostro fratello nell’episcopato.
È il vincolo di unità e di amore che rende vero tutto ciò che stiamo facendo. Nella preghiera sacerdotale di Gesù, al capitolo 17 del Vangelo del nostro santo di oggi, vi è tutta la tensione del Signore che impetra al Padre che tutti siano uno. Essere fedeli al Papa vuol dire amare la Sposa di Cristo della quale tu oggi sei pilastro, fondamento. Lasciare il passo a Pietro vuol dire che tutto ciò che noi facciamo e desideriamo da oggi in poi deve essere solo il bene della Chiesa, posponendo, anzi abbandonando, ogni interesse o visione personale al bene prioritario e irrinunciabile per un ministro di Dio, che è l’annuncio del Vangelo di Cristo.
Giovanni è lì che scruta la sponda del lago e prima degli altri riconosce il Risorto e grida «è il Signore», portando i suoi sensi a riconoscere colui che è tornato, vincendo la morte. Anche in situazioni umanamente improbabili, come l’apostolo amato dovrai gridare, con gioia profonda, anche in mezzo allo sconforto «è il Signore, è Lui» per essere portatore di speranza ovunque. Il vescovo è un uomo che prende continuamente le distanze dalla mentalità di questo mondo pur essendo lievito buono di questo mondo. Infatti così il Papa: «siamo Padri di persone concrete; cioè paternità, capacità di vedere, concretezza, capacità di accarezzare, capacità di piangere. Pare che oggi ci siano stetoscopi che riescono a sentire un cuore a un metro di distanza. Ci occorrono Vescovi capaci di sentire il battito delle loro comunità e dei loro sacerdoti, anche a distanza: sentire il battito. Pastori che non si accontentano di presenze formali, di incontri di tabella o di dialoghi di circostanza.
A me vengono in mente Pastori così auto-curati che sembrano acqua distillata, che non sa di nulla. Apostoli dell’ascolto, che sanno prestare orecchio anche a quanto non è gradevole sentire.
Per favore, non circondatevi di portaborse e yes men… i preti “arrampicatori” che cercano sempre… no, per favore. Non bramate di essere confermati da coloro che siete voi a dover confermare».
Agli occhi e al cuore del vescovo è affidata la visione della Gerusalemme celeste e dovrai rendere la sposa di Cristo sempre bella, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Ma la cosa che ti auguro caro vescovo Angelo, che tu possa come Giovanni, fin quando il Signore ti darà vita, ritemprarti alla gioia del primo incontro con il Signore, che ti ha chiamato da una famiglia di un nostro paese, la tua Pulsano, da una mamma casalinga e da un papà operaio dell’Italsider.
Possa nel tuo cuore rimanere sempre grato alla tua parrocchia, ai tuoi amici, al tuo parroco don Franco, ai tuoi arcivescovi, ai tanti amici presbiteri, alle tante religiose, a questa Arcidiocesi che ti vuole bene e oggi gioisce con te e per te, fremendo di commozione. Ricordati don Angelo il tuo primo incontro con il Maestro, come l’apostolo Giovanni, che fino alla fine dei suoi lunghi anni, ha ricordato nitidamente quella giornata in cui stette con il Signore fino alle quattro del pomeriggio (Gv 1). Anche tu come lui hai chiesto a Gesù dove dimorasse e lui ti ha detto, «vieni e vedi», «vieni e seguimi», così oggi, forte di quei primi passi, puoi proseguire il cammino e sentirti dire da Lui : «pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle» (Gv 21, 15).
Cari fratelli e sorelle della diocesi di Crotone – Santa Severina, da oggi saremo ancora più uniti nella fede. Noi Chiese sorelle bagnate dal Mar Ionio, abbiamo ferite comuni, come comune è anche la fede inossidabile che contraddistingue le Chiese del Sud. Vi chiediamo di accogliere l’Arcivescovo Angelo Raffaele con sentimenti di affetto, di fiducia e di gioia. Noi vogliamo bene a questo nostro figlio e fratello dal tratto amabile, uomo semplice, preparato e capace. Vogliategli bene anche voi. Pregheremo sempre per lui e per voi.
Ora, fratelli e sorelle, eleviamo la nostra preghiera al supremo Pastore perché l’arcivescovo Angelo custodisca la Chiesa in purezza e integrità di fede, si prenda cura del gregge nel quale lo spirito di Dio oggi lo pone e perché in lui splenda il fulgore della santità così che quando apparirà il Principe dei pastori, egli possa meritare la incorruttibile corona di gloria.