COM-MOSSI DALL’AMORE DI CRISTO
Ci prendiamo cura delle persone ferite e della casa comune
Carissimi sacerdoti,
autorità e carissimi fedeli laici.
Avremmo voluto anche quest’anno intraprendere il cammino pastorale con il pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo come gesto di intensa comunione ecclesiale di gente lieta, pronta ad incontrare il perdono divino sulle tracce della Madonna delle Grazie e di San Pio, felici di ritrovarsi in tanti come pellegrini. Obbedendo alle circostanze determinate dalla pandemia non rinunciamo però ad un inizio fraterno e gioioso del nuovo anno pastorale.
Anche quest’anno voglio proporvi tre parole decisive, utili ad illuminare ambiti di riflessione e di cammino nella nostra Diocesi. Come premessa, richiamo tutti ad una ripresa delle grandi questioni che la pandemia ha suscitato nella nostra vita. Questi interrogativi costituiscono il contesto da cui partiamo. In seguito, il primo passo del nostro cammino è prettamente kerigmatico, cioè è l’irruzione della buona notizia perché sia chiara, a dirla con san Paolo, la «potenza» del Vangelo di Cristo; Vangelo, buona notizia della quale non ci vergogniamo: il Signore si è commosso dinanzi alla nostra vita. La seconda parola vuole incarnare nel cammino ecclesiale ciò che riceviamo per dono, coltivando nelle nostre comunità il commuoversi di Dio verso di noi. La terza parola vuole esprimere quel movimento missionario di Chiesa in uscita che è il prendersi cura.
Ci ispiriamo alla meravigliosa parabola del buon samaritano perché sulla via che va da Gerusalemme a Gerico, via che oggi chiamiamo Via della Misericordia, vogliamo ritmare in tre movimenti intimamente uniti e connessi la nostra vita diocesana.
Le domande della vita
Sotto la sferza della realtà ci siamo ritrovati vulnerabili e siamo stati costretti a interrogarci. Soprattutto ci ha ferito il passaggio della morte che ha colpito in modo lacerante quando ai parenti non si è potuto dare nessun segno di conforto ed essi sono morti in estrema solitudine. La scorza della nostra indifferenza almeno per un momento è stata scossa facendo nascere la domanda sulla vita, sulla nostra vita e su quella di ciascuno. E con la grande domanda siamo stati provocati alla ricerca di un perché. I volti delle persone defunte ci hanno fatto riflettere sul nostro volto e sulla nostra fragilità. L’abituale distrazione e l’“orgoglio tecnologico” sono stati profondamente provati. Nella sua drammaticità questa provocazione è salutare perché rende impraticabile qualsiasi scappatoia. Mai come in questa circostanza, abbiamo potuto scoprire di essere davvero tutti connessi, accomunati da una sofferenza, da un destino comune, dall’incertezza e dalla paura.Il tempo delle domande è occasione feconda perché desideriamo una risposta non illusoria. Ascoltiamo cosa ci dice la nostra fede: anche nell’estremo abbandono non siamo soli; il Signore non ci abbandona e ci è vicino, ci cura le ferite e risponde alla sete di eternità che arde nel nostro cuore. Nel cammino della vita Qualcuno ci guarda ed ha compassione di noi. «Vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33)
Compassione di Cristo per noi.
È Gesù il buon samaritano. Il nostro annuncio parte dall’esperienza personale, vera e viva di Gesù che ci vuole bene. Nella parabola del buon samaritano ognuno può rivedere sé stesso che nelle diverse situazioni della vita incappa nei briganti, perdendo la sicurezza della salute, dei beni, patendo lo smarrimento come anche l’indifferenza e l’inutilità degli aiuti degli altri uomini. L’evangelista parla di un uomo che cade nelle mani di alcuni briganti; non si dice nulla su di lui: se sia una persona da bene o un poco di buono, nulla sulla sua condizione sociale ed economica né tantomeno sulla sua età. La debolezza, il dolore, l’umiliazione, muove a compassione il cuore del buon samaritano. È così che il malato attira il medico, la miseria la misericordia, il peccato la salvezza. Nell’anno Santo della Misericordia abbiamo sentito tante volte la parola compassione. Il verbo, «essere riempito di compassione» (splangkhni|zomai in Greco), è usato solo nei vangeli di Matteo, Marco e Luca e in nessun altro luogo nel Nuovo Testamento. Questa parola deriva dalla parola «splangk|hne» che letteralmente significa interiora o viscere – la parte più interna del corpo. Il samaritano e il padre del figlio prodigo sono manifestazioni di questo movimento. La compassione, la misericordia sono la natura stessa del Padre manifestata nella carezza del Figlio!
La vita cristiana nasce dall’incontro personale con il volto di Gesù misericordioso. Ciò che ci rende cittadini del cielo già da questa esperienza terrena è l’amore che ci perdona, l’amore che si prende cura di noi. La nostra cittadinanza nel Regno ci è data dall’essere amati. È quello sguardo del Cristo compassionevole, che fissandoci ci ama, che ci cambia la vita, liberandoci da ogni superbia, alterigia verso i fratelli.
La Beata Vergine Maria, di cui oggi celebriamo il Santissimo Nome, è pervasa dalla beatitudine, dalla felicità riconosciuta da Elisabetta, perché nella sua umiltà si sente guardata da Dio! Ci dice l’Evangelista Luca: “Il nome della vergine era Maria” (Lc 1,27). Quello sguardo del Padre che per opera dello Spirito Santo conduce nel suo seno il Verbo che prende carne per salvarci, è lo stesso sguardo del quale ciascuno di noi è destinatario. Il volto della misericordia, riporta il nostro volto a ciò che siamo, icona, immagine di Dio, figli di Dio amati. L’amore è venuto a prenderci lì dove eravamo persi, lì dove il peccato e la sofferenza hanno sbarrato la strada, l’Amore è venuto a salvarci. Lì dove gli altri ci hanno abbandonati quasi morti e dove altri ancora hanno fatto finta di non vederci, hanno pensato che non riguardasse loro la nostra vita. L’amore commosso è corso incontro a noi (cfr Lc 15).
Commossi – mossi insieme
Alla domanda del dottore della legge posta per giustificarsi: «chi è il mio prossimo?», Gesù non risponde con una definizione ma con questa parabola, un racconto articolato che ci fa comprendere come l’amore non sia un’astrazione, ma un’esperienza concreta. Non si può raccontare la carità, bisogna viverla nel cammino della vita. Il buon samaritano «vede» il disgraziato, «si avvicina», cura, le ferite, le pulisce e le fascia versando vino ed olio, carica il malcapitato sulla sua cavalcatura, e lo porta in una locanda, trascorre con lui la notte vigilandolo, si accolla ogni spesa e promette di ritornare. I commentatori di tutti i tempi hanno visto in questi segni di tenerezza l’immagine dei sacramenti e in quella della locanda quella della Chiesa. E’ bellissima l’immagine della Chiesa quale rifugio del buon samaritano per i suoi soccorsi. Commossi insieme è la suggestione meravigliosa che deriva dall’essere abitanti di questa locanda, toccati a nostra volta all’amore compassionevole da Dio e comunitariamente chiamati a toccare nell’amore e con l’amore di Dio il mondo intero.
Papa Francesco ha indicato la Chiesa come ospedale da campo. La Chiesa è la casa dove Gesù istituisce il presidio della cura, il luogo dove riabilitarsi all’amore, alla misericordia. [Ognuno di noi è entrato in questa locanda per conoscere l’amore di essere salvati e possiamo nella gratitudine e nel riparo riconoscere nell’ascolto della parola di Dio e nei sacramenti quel vino e quell’olio versato sulle piaghe, sulle ferite. La locanda esprime da un lato il fatto che non siamo proprietari dei luoghi che abitiamo, ma come direbbe la liturgia Lui versa su tutti noi «olio della consolazione e il vino della speranza», quasi a dire che è sempre Lui che paga il nostro conto.] La nostra Chiesa è una Chiesa samaritana. Commossi dalla pietà di Gesù siamo chiamati a prenderci cura gli uni degli altri, senza paura di andare in perdita. Siamo sicuri che al suo ritorno Egli ci ricompenserà! Raccolti dalla strada, il Signore ci dona una dimora, un porto sicuro. Vogliamo cogliere in questo anno pastorale l’opportunità di attuare nel nostro percorso la nuova edizione del Messale Romano quale occasione di arricchimento e di progresso nel cammino di fede delle nostre comunità parrocchiali, proprio per accogliere efficacemente sulle nostre vite quel vino e quell’olio.
Prendersi cura (Lc 10,37)
È il terzo punto del nostro cammino. Torno ancora sulla domanda iniziale del dottore della legge per raccogliere un altro dato sorprendente di questa parabola che è una fonte inesauribile di meditazione.
Il dottore della legge chiede “chi è il mio prossimo?”. Ad una prima lettura potrebbe sembrare che chieda chi è la persona più vicina a lui da aiutare, da amare. Invece la conclusione della parabola rivela questo aspetto. «secondo te, dei tre che incontrano il disgraziato che incappò nei briganti, chi si è fatto prossimo?». Il dottore della legge non può che rispondere «chi ebbe compassione-misericordia con lui». La nostra prima missione quindi è quella di essere il Prossimo per ogni uomo e donna. In ognuno e per ciascuno c’è il buon samaritano. Dobbiamo permettere a Dio di parlare all’uomo e all’uomo di dialogare con Dio. Senza dimenticare che egli si dichiara samaritano, non è un dato da poco. Samaritano quindi sgradito ai custodi della Legge e del tempio.
Conosciuto questo Amore, non solo compreso, ma ricevuto, vissuto sulla nostra esistenza toccata dall’incontro con il pellegrino verso Gerusalemme, noi dobbiamo fare come lui. L’esperienza che viviamo in questo 2020 è rivelativa dell’uomo che prostrato nella polvere, rimane percosso, nudo e mezzo morto. Che cosa può fare il levita? Che cosa può fare il sacerdote del tempio? Anche essi scendono e non vanno a Gerusalemme. Custodi della legge e del culto possono fare analisi e diagnosi, ma sono lontani dall’amare. Deviano dal malcapitato perché oggettivamente non c’è sociologo, virologo, opinionista, influencer che possano darci quello che il Buon Samaritano può darci, ovvero la misericordia. Guai ad una Chiesa che sta a guardare e giudicare il male del mondo senza farsene carico, senza sentirsi toccata dai guai nelle viscere più profonde.
Dobbiamo necessariamente «inciampare» in Cristo per trovare in Lui le chiavi del nostro credere e della vera vita cristiana. Dobbiamo quindi prenderci cura dei volti feriti delle persone e del nostro ambiente. Credo abbiate notato anche voi che anziché imparare la dura lezione della nostra precarietà, della consapevolezza di avere gli uni bisogno degli altri, delle conseguenze pagate a caro a prezzo del mancato rispetto della terra, è riapparso subito l’odio in mezzo a noi, verso i migranti, verso i poveri, talvolta anche verso le stesse persone contagiate, come se da un momento all’altro non potesse toccare anche a noi la nostra sorte.
La chiesa di Taranto deve proseguire nel cammino confermato della solidarietà, del prendersi cura. Come non ricordare tutto il bene che è stato fatto dalle nostre caritas e dal banco alimentare? Come non pensare alla generosità di tantissima gente? Così come all’abnegazione dei medici, del personale ospedaliero e dell’esercito di volontari! Non dobbiamo dimenticare che il bene è possibile in mezzo a noi.
Come è stato ricordato nel messaggio che ha preparato la Commissione per i problemi sociali e del lavoro della Conferenza Episcopale Pugliese in vista delle elezioni regionali dei prossimi giorni, ci sono dei campi di azione pastorale che non possiamo disertare specie all’inizio di questo autunno nel quale ho sentore di ulteriori difficoltà. È il tempo del prendersi cura!
In primis la questione ambientale. La nostra Regione, considerata una delle più belle mete per bellezze ambientali e monumenti storici, a causa della pandemia è una delle più provate nel settore turistico e continua a dover fronteggiare alcune emergenze sul piano ambientale che cozzano con la meraviglia che caratterizza la stragrande maggioranza del territorio. La complessa vicenda dell’ex Ilva, oggi Arcerol-Mittal, insegna che la Regione Puglia, ispirandosi alle buone pratiche proposte dalla Laudato sì, dovrà continuare a battersi perché l’acciaio non uccida le persone, non devasti l’ambiente e non ferisca la vita dei lavoratori e degli abitanti più vicini alla zona industriale. E i nuovi mezzi prodotti dall’innovazione tecnologica ci sono. Papa Francesco invita tutti a custodire e non deturpare la Casa Comune per abitarla dignitosamente e responsabilmente. Per questo auspichiamo che l’azione politica del nuovo Consiglio Regionale, nel rispetto delle proprie competenze e con gli strumenti concessi dalle leggi, sia impegnata nell’azione di imprimere al siderurgico tarantino una direzione totalmente nuova in una direzione eco-compatibile. Il lavoro è per la vita, non per la morte delle persone e della nostra casa comune.
Inoltre la dignità delle persone risulta essere gravemente ferita dalla mancanza del lavoro, innanzitutto dei nostri giovani e poi dalla insicurezza dei lavoratori; la situazione altalenante e precaria del nostro territorio è lesiva per il futuro delle nostre famiglie. Nel frattempo continuiamo con la nostra solidarietà ecclesiale facendoci realmente buoni samaritani. Le nostre comunità e il vasto mondo di associazioni, movimenti e del volontariato sono chiamate a lavorare per unire le forze in vista del bene comune e ad essere fattore di speranza e di responsabilità per costruire il nostro presente e il nostro futuro.
È quanto mai urgente passare, per dirla con Papa Francesco, dal “balcone”, cioè dallo stare a guardare dal balcone a giudicare tutto e tutti, all’impegno concreto, “sinfonico”, senza nessuna forma di demagogia per il bene comune a vantaggio della nostra amata Taranto, della nostra amata Puglia. E il 20- 21 settembre andiamo a votare.
Dobbiamo vivere tutti quanti la parabola del buon samaritano, chiamati a prenderci cura. Per questo ci farà bene interrogarci: il tarantino che scende da Gerusalemme a Gerico, si china sulle difficoltà del prossimo? Ha compassione per il suo stesso futuro? Per il futuro dei suoi stessi figli? Oppure va oltre come il sacerdote e il levita che credono che il problema del moribondo sulla strada non li riguardi? Taranto è al centro di tante attenzioni. Si parla di fondi, di rilanci, di rinascite, di tavoli istituzionali ma il ruolo di protagonisti attivi e partecipi del cambiamento è lontano, e ciò è imputabile principalmente ad una mancata responsabilità personale, di chi attende che le cose cambino senza adoperarsi perché ciò avvenga. Di chi aspetta che siano gli altri a fare, che sia il Governo o l’amministrazione. Questi devono assolutamente fare ciò che spetta a loro, ma ciò non basta.
Il prossimo 3 ottobre il papa consegnerà al mondo la sua terza enciclica «Fratelli tutti», sarà sicuramente un’altra sfida, un altro lume in questo tempo difficile. Già in sé l’incipit mina ogni forma di chiusura, riconsegnandoci un legame di fraternità e di amicizia sociale. Tutti siamo connessi, specie in questa pandemia del Covid19 così come in quella della violenza che serpeggia nella nostra società manifestandosi con tutta la sua bruttezza. Penso al sorriso del giovane Willy Monteiro Duarte, nelle drammatiche cronache di Colleferro e vi invito a pregare per la sua famiglia.
Conclusione
Vorrei concludere potendo rileggere, in compagnia del Buon Samaritano, l’attuazione della meravigliosa profezia della prima lettura. Isaia preannunzia quel nuovo umanesimo che è possibile solo in Cristo, che ridona a noi la dignità di essere figli amati.
La ricostruzione è possibile solo a ripartire dall’amore di Dio, che si rende presente con l’immagine più rassicurante in assoluto, come quello di una mamma che stringe al proprio seno il figlio per allattarlo, per prendersi cura di lui.
Vogliamo con Isaia andare contro corrente. Il popolo di Israele aveva grandi preoccupazioni ed era abitato dalla sfiducia per la ricostruzione del tempio. Tralasciando queste apprensioni, il profeta non preannuncia le nuove mura, ma la nascita di un popolo nuovo, un popolo fedele. Il miracolo che Dio può compiere è la nascita di una comunità giusta e santa. Per questo siamo qui e il nostro cuore deve traboccare di gioia e le nostre membra ritrovare vigore per evangelizzare e portare misericordia e speranza.
In questo anno pastorale 2020 – 2021, vorrei che tutte le realtà ecclesiali fossero sottoposte ad un’autentica riflessione riguardo la loro missione in questa fase post pandemia.
Le emergenze ci insegnano che cosa è giusto eliminare, ma anche cosa sia subito essenziale e necessario. Sarebbe un peccato se quell’auspicato ritorno alla normalità prescindesse dalla dura lezione che ancora oggi ci viene impartita.
Nel prossimo dicembre ricorrono i 50 anni della costruzione della Concattedrale di Giò Ponti, patrimonio artistico della nostra Terra. In maggio del 2021 ricorreranno i 950 della ricostruzione della cattedrale e del ritrovamento delle spoglie di san Cataldo. Taranto era rasa al suolo. Le vestigia di un passato glorioso del mondo pagano e del mondo cristiano erano a terra. Si rimise mano alla cattedrale con l’ambizione di fare dalle macerie un tempio più grande e di ricostruire da quelle rovine un luogo di preghiera e di bellezza che ancora oggi appare a noi come testimonianza secolare di fede. San Cataldo fu ritrovato nei pressi dell’attuale battistero e il suo profumo ricordò a tutti che in mezzo a noi il Risorto non ci abbandona mai. Celebreremo anche i 25 anni dalla canonizzazione del nostro caro Sant’Egidio da Taranto e sarà un’occasione per gustare e assimilare il sapore della santità semplice e dell’amore ardente verso i poveri. Benedico anche io questo anno come anno propizio. La fede non soltanto ci fa curare sulle ferite e ci spinge a mettere mano al futuro. La Madonna della Salute, san Cataldo, i nostri santi Francesco De Geronimo e Egidio da Taranto ci accompagnano e ci benedicono. Auguro a tutti un cammino pieno di ardore sospinti e commossi dalla misericordia di Dio.
Buon anno e buon lavoro a tutti.
Vi abbraccio e vi benedico.